Ai genitori ingombranti
di Valentina Romano | Genitori e mentori - MacGuffin n. 11
Cari genitori,
Sono certa che volete un bene dell’anima ai vostri figli e avete cercato di educarli al meglio delle vostre possibilità, dando loro il massimo e facendo rinunce e sacrifici; che avete loro spiegato che cosa è giusto e cosa no e insegnato fin da piccoli a dire “grazie”; che avete loro raccontato quanto sia gratificante ottenere un risultato con fatica e quanto sia utile un errore. So che avete detto loro che se vogliono realizzare i propri sogni devono studiare. Bravi.
Chiedo ora a chi di voi ancora non l’avesse fatto di togliersi di mezzo.
Avete capito bene: se non vi siete ancora messi da parte, fatelo subito.
Per la semplice ragione che non siete i vostri figli né i loro insegnanti.
Innanzitutto adesso i vostri figli sono grandicelli, diciamo che fanno il Liceo. Loro. Non voi. Non confondetevi con loro. Perché voi ci siete già andati a scuola, ricordate? Ora tocca a loro andarci e studiare. Forse vi è piaciuto talmente tanto che volete ripetere l’esperienza? Troppo tardi. È il loro momento, questo, non è la vostra seconda occasione. Se vi sostituite a vostro figlio non gli fate un favore, è a lui che togliete un’occasione per crescere.
Capita spesso che una mamma, preoccupata dei brutti voti che il figlio va collezionando, mi chieda preoccupata: “professoressa, che cosa possiamo fare per recuperare?”, usando la prima persona plurale. Mi immagino madre e figlio, in cameretta, a tradurre insieme la versione di Latino, con la mamma che ripete le declinazioni al figlio riluttante: strana forma di masochismo. Io di solito rispondo alla signora che il figlio è l’unico responsabile del voto che ha preso, che lei non può fare niente e nemmeno deve provare sensi di colpa se non controlla tutti i giorni il registro o non verifica la sera che il pargolo abbia fatto i compiti: giustamente la mamma ha altro da fare (ad esempio, dedicare del tempo a se stessa!), mentre dei compiti è il figliuolo che deve occuparsi.
Suggerisco fra l’altro alle mamme, per non cedere alla tentazione, dopo che in quinta elementare si è finalmente deciso il regalo da fare alla maestra, di togliersi definitivamente dai vari gruppi Whatsapp dei genitori, ambienti virtuali spesso insani dove l’ansia prolifica tossica e incontrollata.
In realtà trovo bello - poetico, quasi - che un genitore affianchi il proprio figlio nei compiti, per quanto la famiglia del Mulino Bianco non esista neanche in versione scolastica; ma deve accadere una tantum e solo se il ragazzo è d’accordo. Va bene, dunque, se quel fare i compiti insieme è un momento piacevole di ascolto e confronto (“Oggi ho studiato la Rivoluzione Francese” - “Ma dai! Ti va di parlarmene? Che cosa ne pensi?”); se invece l’interessamento è finalizzato al controllo (“Adesso ti interrogo e vediamo se hai studiato!”) o è motivo di angoscia (“La sai bene? E se domani ti interroga?”) o diventa strumento di cui il genitore si serve per imporre o affermare se stesso (“Io so tutto della Rivoluzione francese, te la spiego io così fai un figurone”) il ragazzo perde il piacere della condivisione di ciò che ha studiato, perde il piacere di scoprire autonomamente qualcosa di nuovo, perde l’occasione per misurarsi con un argomento più difficile, perde pure l’opportunità di alzare la mano in classe e chiedere al professore - che guarda un po’ è lì apposta - di rispiegare quel che non ha capito.
Perde e basta.
Dunque: non studiate con lui o per lui. Stategli accanto, ma non addosso.
È ovvio che vogliamo il bene dei figli e vorremmo non soffrissero mai. Ma non è compiacendoli continuamente, proteggendoli o giustificandoli che, una volta adulti, impareranno ad affrontare delusioni, difficoltà e ingiustizie. Non cresceranno mai questi ragazzi se gli spianate la strada e gli risolvete i problemi. Oltretutto non avranno mai percezione di sé, cioè non avranno mai auto-stima.
Quindi, cari genitori troppo ingombranti, smettete di correre in soccorso del vostro fanciullo ormai alto due metri, atterrando in qualsiasi campo della sua vita per salvarlo da dolori e frustrazioni.
La scuola è uno di questi campi. Il mio campo.
Mi son fatta l’idea, negli anni, che gli ambiti nei quali i genitori si sentono in diritto di intervenire sempre siano due: scuola e sport. La ragione è che ne hanno esperienza diretta, essendo loro andati a scuola e avendo di solito praticato uno sport. Quando i figli si trovano in questi contesti, dunque, i genitori assurgono a esperti, pronti a criticare e incolpare: non si limitano a fare i padri e le madri, ma diventano insegnanti e allenatori che sparano giudizi inferociti sulle scelte didattiche o strategiche di chi è professionista del mestiere e per quello ha studiato. Lo fanno esclusivamente sulla base della propria percezione della realtà e del proprio vissuto, senza averne le competenze: “il tuo professore? Non sa insegnare”. “Il tuo allenatore? Io, se fossi al posto suo, avrei fatto così…”
Cari genitori ingombranti, voi non siete e non sarete mai al posto del professore o dell’allenatore. Ma meno male. La mamma è la mamma, il professore è il professore, l’allenatore è l’allenatore. Perché sarebbe come se io mi mettessi a spiegare all’idraulico come aggiustarmi la lavatrice: avrei il bagno allagato.
Questa confusione di ruoli, questa ingerenza delle famiglie nel mondo della scuola non solo non consente agli insegnanti di lavorare in condizioni di serenità, ma soprattutto non giova ai vostri figli, che hanno bisogno di vedere che famiglia e scuola sono alleate e stanno dalla stessa parte.
Vi chiedo coerenza. Se voi per primi considerate il professore come un nemico, per giunta incompetente, come potete pretendere che vostro figlio vada a scuola volentieri? Che stia ad ascoltare attento quelle figure adulte che voi stessi, per primi, percepite come ostili e di cui mettete in dubbio la professionalità e la funzione educativa? Sminuire il ruolo del docente è invalidante per tutti: vi ricordo invece che partecipiamo a un progetto comune, fondamentale e che responsabilizza entrambi, cioè la formazione di vostro figlio. La fiducia è la chiave, non la diffidenza.
In particolare, per i genitori ingombranti è sempre più difficile accettare osservazioni negative sui figli da parte della scuola o scoprire, magari attraverso dei brutti voti, che i propri figli hanno punti deboli. Forse perché accorgersi che il proprio figlio non è perfetto può significare mettersi in discussione come genitori. Fatto sta che, di fronte alla mancanza di impegno del figlio, a un suo comportamento scorretto o a un rendimento scolastico deludente (maledette aspettative), i genitori lo giustificano dando la colpa alla scuola: che pretende troppo, non li stimola, non li incoraggia. Innanzitutto, a me non sembra che stiamo sfornando tanti piccoli Giacomo Leopardi. Certo la scuola richiede impegno. Ma quando vostro figlio andrà a lavorare non gli sarà forse richiesto di impegnarsi, concentrarsi, organizzarsi, rispettare scadenze e consegne, misurarsi con richieste anche eccessive, perfino ingiuste? E se non impara a scuola a fare queste cose, quando le imparerà?
Poi: un bambino a cui non è mai stato concesso il diritto di annoiarsi, a cui a sei anni è stato dato in mano un cellulare anziché un libro, come può sentirsi stimolato a quattordici da qualcosa che non sia lampeggiante e rumoroso? Il professore non è l’animatore di un villaggio turistico: lui spiega le equazioni e la Divina Commedia, che sono quelle cose polverose che però fanno muovere le rotelline del cervello e non le fanno arrugginire.
Infine, sento dire che la scuola non incoraggia: ma un bambino cresciuto a suon di “come sei bello” e “come sei bravo”, accontentato senza il minimo sforzo, come dovrebbe reagire di fronte al primo 4 nella versione di Latino? Andrà in crisi. E ancora una volta, meno male che c’è qualcuno che ce lo manda, in crisi: sappiate che il 4 in Latino lo fortifica molto di più di tutti i “sì” che gli avete accordato finora e che la compiacenza che nel corso degli anni gli avete accordato per non farlo sentire insicuro ha sortito l’effetto contrario di farlo crescere troppo sicuro di sé, convinto che tutto gli sia lecito o dovuto, anche nelle relazioni interpersonali. I fallimenti scolastici, permettendo a vostro figlio di entrare in contatto con i suoi limiti, sono determinanti per superarli, per strutturarsi emotivamente e per sviluppare resilienza.
Pertanto, cari genitori ingombranti, ora che arrivano le pagelle di quest’anno per tutti travagliato, io vi invito piuttosto a ringraziarli questi insegnanti che hanno e avranno il coraggio di fare con vostro figlio quello che voi non siete mai riusciti a fare: dirgli che non è perfetto (ma gli vogliamo bene comunque), che ha fatto male una cosa (ma ne avrà fatta bene un’altra), che non ha capito un tubo di un dato argomento (ma prima o poi ci arriverà), che quella intrapresa magari non è la sua strada (ma anche lui troverà la sua). È solo un modo diverso dal vostro per prenderci cura di lui.
Viva dunque gli insegnanti coraggiosi e i genitori che fanno il tifo per i propri figli: senza invadere il campo, da un angolino dell’ultimo spalto, guardandoli a distanza mentre si giocano la loro partita.