Elogio del guscio
di Jacopo Boschini | L'uovo - MacGuffin n. 8
30 maggio 1846: a San Pietroburgo Peter Carl Fabergé rompe il guscio e si affaccia al Mondo, emettendo i suoi primi vagiti.
Figlio di un gioielliere di origini ugonotte (da qui il cognome poco russo) decide, in giovane età, di trasformare il mestiere del padre nella sua missione di vita. Ed è proprio la passione per il suo lavoro che lo porta a viaggiare, negli anni della formazione, per tutta Europa: vuole incontrare i migliori gioiellieri esistenti, confrontarsi con loro, carpirne i segreti, scambiare esperienze. Il viaggio si conclude nel 1876 quando Fabergé torna a San Pietroburgo per lavorare al numero 16 della strada Bolshaya Morskaya, ovvero la sede della gioielleria di famiglia. Nel 1882, a seguito della morte del padre, Fabergé diventa definitivamente il titolare dell’attività e acquisisce il riconoscimento di mastro orafo. Ed è proprio il 1882 ad essere l’anno della svolta: lo zar Alessandro III, durante una mostra d’arte “Pan-russa”, nota le sue opere e decreta che vengano ufficialmente riconosciute come esempio di eccellenza nell’arte. Da quel momento in poi la fama di Fabergé cresce sempre più fino a quando, nel 1885, viene nominato orafo ufficiale della corte imperiale. In quello stesso anno Alessandro III, per festeggiare i venti anni dal fidanzamento ufficiale con l’imperatrice Maria Dagmar di Danimarca, commissiona a Fabergé un uovo di Pasqua da regalare alla moglie. Va da sé che non può essere un uovo qualsiasi (Kinder Sorpresa scansati), ma deve essere un uovo degno di un’imperatrice.
Nasce così il primo uovo Fabergé, ovvero un uovo d’oro ricoperto da un sottile strato di smalto bianco. All’apparenza un oggetto semplice, per quanto prezioso; ma l’apparenza, si sa, inganna.
Come ogni uovo che si rispetti, il primo uovo Fabergé cela infatti meravigliose sorprese: costruito in perfetto matrioska style, aprendolo si scopre un tuorlo che, manco a dirlo, è in oro massiccio. Anche il tuorlo si apre, rivelando al suo interno una gallinella d’oro. La gallinella, a sua volta, nasconde altri segreti: una fedele riproduzione in miniatura della corona imperiale (in oro e diamanti) e, all’interno della corona, un pendente con un rubino a forma di uovo (questi due ultimi oggetti oggi, ahimè, sono andati perduti).
Risultato: felicità, entusiasmo e giubilo dell’imperatrice e piena soddisfazione dello zar. Da lì in poi, ad ogni Pasqua, Fabergé depone un uovo, dando così inizio a una tradizione che andrà avanti anche con Nicola II, fino al 1917 (uniche eccezioni gli anni 1904 e 1905, causa ristrettezze economiche dell’Impero per impegni di guerra con il Giappone). Poi, la tradizione si interrompe e la Rivoluzione (d’Ottobre) obbliga Fabergé ad abbandonare la Russia per rifugiarsi prima in Germania e poi in Svizzera. Nel 1920, a 74 anni, Fabergé muore, lasciando dietro di sé uova preziosissime, oggi sparpagliate un po’ per tutto il Mondo (la collezione più nota, quella imperiale, è composta da 52 esemplari). Con il suo lavoro Fabergé ha continuamente reinventato l’uovo, mantenendone la forma ma, di volta in volta, impreziosendone il guscio con materiali preziosi, disegni, decorazioni, fotografie. E, ovviamente, riempiendolo di meccanismi sofisticati, sorprese e segreti.
Fabergé è stato una di quelle persone che ha trovato nella semplicità dell’uovo un universo di significati, simboli e suggestioni. Questo ci fa comprendere dunque quanto sia difficile, se non impossibile, parlare della complessità dell’uovo in maniera sensata e in poche parole.
Perciò scelgo deliberatamente di ragionare su una sola parte dell’uovo, ovvero il guscio.
Ecco, dunque, il mio elogio al guscio.
Il guscio, nell’uovo, è tanto liscio quanto privo di decorazioni e di orpelli. Senza decorazioni, né orpelli, è anche la prima opera di Fabergé. Sull’onda della naturale evoluzione del processo artistico, Fabergé arricchisce il guscio di bellezza, di lusso, di ostentazione. Ma nonostante le decorazioni e gli orpelli, per quanto preziosi fossero, l’uovo, nella sua forma e nella sua essenza, rimane uovo. Come scrive Spinoza, “tutte le cose vogliono preservare il proprio essere.” Per quanto il guscio venga decorato, imbellettato ed impreziosito, l’uovo preserva sempre e comunque il suo essere uovo.
Il guscio, nell’uovo, è un elemento strutturale, la cui particolare forma gli permette di assorbire pesi e carichi. Non a caso la struttura a guscio è assai studiata (ed usata) anche in architettura. Renzo Piano, proprio sulla struttura a guscio si è espresso dicendo che consente di ottenere grande rigidezza con minimi spessori.
Il guscio, nell’uovo, è poroso. Ciò permette all’ossigeno di penetrare all’interno, in modo da nutrire ciò che nell’uovo si sta formando, e di espellere l’anidride carbonica. La vita respira, nell’uovo, per merito del guscio.
Il guscio, nell’uovo, cela al Mondo misteri e sorprese fino al momento della schiusa. Ci sono ricchezze nascoste, nell’uovo, che non possono essere svelate con leggerezza, superficialità o fretta. Hanno bisogno di tempo per maturare e completare il loro processo di metamorfosi. Senza il guscio, nell’uovo, non ci sarebbe cambiamento.
Il guscio, nell’uovo, protegge ma al tempo stesso isola. Quando ciò che matura e vive nell’uovo raggiunge la sua forma definitiva inizia a provare disagio, fastidio, dolore. In quel guscio non c’è più spazio, né aria. Quel fastidio, quel disagio, quel dolore sono messaggi potenti che si traducono in un bisogno impellente di uscire. Ma come scrive Alexander Lowen, papà della bioenergetica, il guscio non si può togliere. Per emergere, è necessario romperlo. Sempre Lowen dice che la facciata che è stata eretta per proteggere l’essere sensibile dell’individuo, crolla. Ma poiché l’Io si identifica con il controllo, con la volontà, con la facciata, la persona vede il cedimento come un pericolo. Se poi a dover crollare è una facciata decorata ed arricchita con oro, argento, pietre preziose, sculture, immagini celebrative, proprio come nelle uova di Fabergé, allora il far breccia nel guscio, per romperlo, diventa una scelta ancor più sofferta.
Giunti alla conclusione del mio elogio al guscio, vi invito a rileggerlo. Ma con una piccola variante: sostituite la v di uovo con la m. E magari la u minuscola rendetela U maiuscola.
Sarà sorprendente scoprire quando il discorso fili lo stesso.
Buona rilettura.