Meditate gente, meditate
di Jacopo Boschini | Il pieno - MacGuffin n. 17
Ecco un modo di dire che si usa con una certa frequenza: ho fatto il pieno di.
Di energie.
Di sole (di mare, di montagna).
Di letture.
Di benzina (o di gasolio).
Altra espressione utilizzata con una certa ricorrenza: sono pieno di.
D’amore.
Di felicità.
Di tristezza.
Di rancore.
Di malinconia.
Esistono, infine, alcuni pieni che alludono a certi attributi maschili in avanzato stato di saturazione (sono certo di non dover specificare quali siano questi attributi).
Tutto ciò per dire che quando ricorriamo alla parola pieno stiamo dicendo che, nel bene o nel male, la misura è colma. Che nel serbatoio della macchina, nel bicchiere, nel nostro cervello, nella cassa toracica o in altre parti del corpo poco eleganti da nominare, ecco, lì, non ci sta più nulla.
Quando si parla di pieno non si può però non chiamare in causa il suo opposto, il vuoto, perché spesso, infatti, ci troviamo a rimbalzare proprio tra questi due poli.
Facciamoci caso: succede (e anche con una certa frequenza) che viviamo la nostra vita come un continuo svuotarsi e riempirsi di cose, manco fossimo pesci rossi in un acquario. Un attimo prima si sguazza felici, l’attimo dopo ci si ritrova stesi sul fondo a boccheggiare, qualche cattivone ha tolto di colpo tutta l’acqua.
Provo a dare un esempio più concreto ed alzi la mano chi non ha mai vissuto una situazione come quella che sto per descrivere.
Ad agosto (o dintorni) si va in vacanza. Quando si ritorna si è Hulk. Abbronzati, tonici (non nel mio caso perché non amo stare al sole e per me le vacanze sono sinonimo di cibo&vino&grappa) e rilassati. Pronti a spaccare il mondo, manco fossimo a capodanno, formuliamo (logori) buoni propositi, con la sicumera di chi non può non farcela.
7 giorni (e una manciata di ore) dopo, qualcuno ci chiede conto delle vacanze. L’immancabile risposta è: già dimenticate. Voce biascicata, occhiaie nere al posto dell’abbronzatura, guance meste e cadenti. E una grande sensazione di vuoto dentro.
Riassumendo. Tendiamo a vivere polarizzati su uno di questi due estremi, il vuoto e il pieno, senza mai mettere in atto una strategia di mantenimento e tutela delle nostre energie.
Da qui, due domande (e alcune sottodomande).
La prima: è possibile mantenere un livello di energia accettabile, anche nei periodi in cui i fattori di stress aumentano, senza dare fondo a tutte le nostre risorse interiori?
La risposta è sì.
Come?
Per prima cosa dovremmo avere la capacità di costruire (e mantenere) spazi di rigenerazione: riposo, relazioni nutrienti, passioni e hobby. E sono certo che molti di noi, questo, già lo fanno.
Ma nonostante ciò, è facile (e frequente) che stress e stanchezza rompano gli argini e ci travolgano. È necessario dunque trovare altri modi di cura di sé.
Quali?
Cinque anni fa ho frequentato il mio primo corso di meditazione. Per essere precisi, un corso di meditazione trascendentale.
Lo consiglierei?
La risposta è articolata.
La meditazione, in sé, è cosa bella, buona e giusta. La difficoltà che ho avuto con la meditazione trascendentale è legata per lo più al mondo in cui questa tecnica nasce e si sviluppa. Per quanto i suoi sostenitori cerchino di sottolineare i numerosi benefici attraverso una vasta mole di ricerche scientifiche, la meditazione trascendentale rimane fortemente legata al suo fondatore, Maharishi Mahesh Yogi (guru diventato famoso negli anni ’60, grazie ai Beatles che trascorsero da lui un chiacchieratissimo ritiro spirituale). La notorietà della meditazione trascendentale oggi è planetaria, tanto da poter vantare illustri praticanti (David Lynch, Jim Carrey, Oprah, per citarne alcuni). Tutto ciò per dire che, nonostante la validità di questa specifica pratica, avvicinarsi alla meditazione trascendentale significa calarsi in un mondo in cui misticismo e venerazione per il maestro sono prassi consolidate. La cosa non è sbagliata in sé, ma io, con simili approcci, ho sempre qualche difficoltà.
Tra alti e bassi (ho un serio problema di costanza) ho dunque praticato meditazione trascendentale per un po’ e questo mi ha permesso di rendermi conto di come si stia quando non si medita: si sta peggio. Molto peggio (la grande lezione che si apprende quanto si interrompe l’abitudine al meditare è proprio la percezione della mancanza dei suoi benefici).
Di recente mi sono (ri)appassionato alla Mindfulness. Non che non la conoscessi, anzi. Il mio primo incontro con la meditazione è stato proprio grazie alla Mindfulness, ormai quindici anni fa.
Era il 2006 ed ero in macchina, (sì lei la mitica Opel Agila color verde bottiglia di cui ho già avuto modo di raccontare): destinazione Trentino. Sfreccio (si fa per dire) lungo l’autostrada del Brennero quando sento alla radio la recensione di Riprendere i sensi, libro scritto da Jon Kabat-Zinn, ovvero il papà della Mindfulness. Giusto il tempo di trovare una libreria (fuori dall’autostrada, ovviamente) ed eccomi lì, con il volumone in mano, immerso nella lettura. E devo dire che già allora l’approccio teorico del buon vecchio zio Jon ha influenzato considerevolmente il mio modo di connettermi al mondo. Perché? Perché la Mindfulness non solo è completamente laica, ma è anche oggetto di numerosi studi e ricerche.
Il mio interesse per la meditazione (e pratiche simili) è cominciato allora, su una Opel Agila color verde bottiglia tra Ala - Avio e Rovereto Sud.
Oggi, come dicevo, dopo anni in cui io e la Mindfulness ci siamo lasciati, traditi e ripresi più volte, sono tornato definitivamente all’ovile. E questo mi ha permesso di fare mio un principio alla base della Mindfulness: stanchezza e stress spesso dipendono anche dalla relazione che abbiamo con ciò che li genera. In termini più chiari: la qualità dei pensieri e delle emozioni con cui rispondiamo agli eventi della vita sono parte integrante dello stress e della stanchezza. Intendiamoci: non che la vita non sia faticosa e, a volte, carica di sofferenze importanti. Ma molto dipende anche dai nostri schemi di pensiero e dalle risposte automatiche che diamo a tutto ciò che ci accade intorno. Non è mia intenzione, con questo articolo, addentrarmi eccessivamente nel complesso mondo della meditazione (se l’argomento vi interessa fatemelo sapere, magari ci torno su con più precisione). Vorrei però solo sollecitare una riflessione: il modo per non passare dal pieno al vuoto e dunque per non languire esausti sul fondo dell’acquario, esiste. E funziona.
Arriviamo così alla seconda domanda. Come mai scioriniamo un sacco di scuse per non avvicinarci, o non utilizzare, tecniche che potrebbero rendere la qualità della nostra vita sensibilmente migliore? Scuse che, peraltro, tutti noi ben conosciamo: non ho tempo, non ci riesco, non fa per me, roba da fricchettoni, etc, etc, etc..
La risposta a questa domanda nell’Incipit di questo MacGuffin.